Di fronte ad un sistema di regole sono possibili diversi atteggiamenti: un giocatore può rifiutarne una parte o il tutto, ma il rifiuto finisce per dare il via ad un processo che porta alla codifica di nuove regole. Un’altra possibilità è quella del baro, che infrange le regole ma finge di rispettarle.
Se si accettano le regole allora giocare il gioco diventa la ricerca della libertà nei limiti concessi. La libertà la si può cercare nello spazio del gioco, utilizzando il campo da gioco nella maniera più opportuna, oppure nel tempo del gioco, ed in questo caso il giocatore cercherà strategie che sfruttino il sistema di durata e le regole di punteggio stabilite dal sistema di regole. Ancora, la si può trovare nel materiale di gioco, sbilanciandolo con l’obiettivo di dimostrare che poi con la mia organizzazione, i miei pezzi giocheranno meglio. Ma spesso il giocatore può decidere di lasciarsi aiutare dal caso. Le regole determinano ciò che varrà dentro quel mondo temporaneo e delimitato.
Non appena si trasgrediscono le regole, il mondo del gioco crolla. Non esiste più gioco.
Il giocatore che s’oppone alle regole o vi si sottrae, è un guastafeste.
Il baro è colui che per ottenere un vantaggio infrange le regole, ma finge di rispettarle, ed in questo è completamente diverso dal “guastafeste”. Per dirla con Callois, il baro finge di giocare il gioco, in apparenza continuando a riconoscerne il cerchio magico. I partecipanti al gioco perdonano la sua colpa più facilmente che al guastafeste, perché quest’ultimo infrange il loro mondo stesso. Perciò egli deve essere annientato, giacché minaccia l’esistenza della comunità “giocante”. Il baro invece non è un guastafeste, finge di attenersi alle regole e continuerà a giocare finché non sarà colto in fragrante, ma in alcuni sistemi di regole, anche dopo.
Il guastafeste non vuole più giocare il nostro gioco, mentre il baro truffa perché aspira ad ottenere un vantaggio che si realizza nell’ambito del gioco.
In prima impressione, ci verrebbe da dire che il baro, il truffatore annullino, distruggano il gioco, la cui essenza sta proprio nel rispetto delle regole. Tuttavia un esame più approfondito ci mostra che le cose non stanno così ed anzi è molto frequente che gli eroi dei nostri miti, delle nostre leggende, delle nostre storie e anche delle nostre cronache, siano dei bari.
Ad esempio, nella favola della lepre e del riccio è quest’ultimo l’eroe della storia, eppure è proprio lui a scegliere di ricorrere all’inganno per vincere la corsa. Dopo che una lepre gli fece notare che aveva le gambe storte, il riccio si offese e propose alla lepre una gara di velocità. Prima della gara il riccio andò a casa e parlò con la moglie.
“Ho fatto una scommessa con la lepre: vogliamo stabilire chi corre più in fretta”.
“Devi aver perduto la testa! Fare una gara con la lepre! Quella ha le zampe agili e tu le hai storte e lente.”
“Se la lepre ha le zampe agili, io ho agile il cervello. Fai come ti dico, vieni con me al campo”.
Arrivati al campo arato, il riccio spiegò il suo piano alla moglie:
“Tu nasconditi a questa estremità del solco: io e la lepre partiremo dall’altro capo. Quando la lepre si sarà lanciata, io tornerò indietro e, appena arriverà da te, tu fatti vedere e grida: “E’ da un pezzo che ti aspetto”. Lei non potrà distinguerti da me e crederà che sia io a trovarmi qui”.
E così andarono le cose.
La moglie del riccio si nascose nel solco. Il riccio e la lepre partirono dall’estremità opposta. Appena la lepre distanziò il riccio, questi tornò indietro e si nascose nel solco. La lepre giunse in fondo al solco: ma chi vide? Un riccio era là seduto e le disse: “E’ da un pezzo che ti aspetto”.
La lepre non si accorse che quella era la moglie del riccio e pensò: “Che strano! Come ha fatto a sorpassarmi?”.
“Ebbene” disse al riccio. “Ricominceremo la gara”.
“Come vuoi”.
La lepre tornò d’un baleno all’altro capo del solco… chi vide? Il riccio che le disse: “Eh, eh, sorella! Arrivi tardi: è già un pezzo che sto qui ad aspettarti”.
“Come?” pensò la lepre, “ho corso a gambe levate, eppure lui mi ha sorpassato. Ebbene, proverò una terza volta: ora non mi supererà”. E disse:
“Forza. Ripetiamo la gara”.
La lepre corse con quanto fiato aveva, ma… il riccio era di nuovo là seduto che l’aspettava.
E così continuò a correre da un capo all’altro del solco, finché restò senza forze.
Alla fine riconobbe la sua sconfitta e dichiarò che non avrebbe fatto mai più simili scommesse. Ma in un’altra versione della storia la lepre corre tra i due solchi fino a che non le mancano le forze e stramazza al suolo.
L’ambiguità di comportamenti nei confronti di questo particolare atteggiamento nei confronti delle regole è molto evidente nel mondo del calcio. Nel suo bel libro, “The Italian Job” Gianluca Vialli affronta, tra le altre cose, il problema dei simulatori. In un confronto tra i diversi atteggiamenti in Italia ed Inghilterra riconosce che il fenomeno è molto più diffuso in Italia, tuttavia racconta che nessuno lo ha mai incoraggiato a buttarsi al minimo contatto. Vialli però ci fa vedere come “certe cose si apprendano in modi più sottili”:
“Mondonico, per esempio era uno spirito libero, ma anche lui voleva vincere. Era solito unirsi alle nostre partitelle e, come spesso fanno gli allenatori, arbitrava mentre giocava. Puntualmente, se la sua squadra stava perdendo o se alla fine dell’allenamento il punteggio era in parità, cadeva in area e si dava un rigore. Succedeva molto spesso. A volte lo faceva per scherzo, altre era tremendamente serio. Dicono che le azioni siano più eloquenti delle parole e, per me, questi erano fatti eloquenti. Che ridesse mentre fischiava il rigore o che fingesse di aver davvero subito fallo, il messaggio era lo stesso: non sopportava la sconfitta ed era pronto a fare qualsiasi cosa pur di vincere. Era chiaro a tutti. E, in questo senso, era parte della nostra educazione calcistica. All’epoca, molti non vedevano certi espedienti per quello che sono veramente: un imbroglio. Erano ritenuti mosse intelligenti, anzi, come si dice in Italia, furbe. “Fare il furbo” ha connotazioni negative, tuttavia è una parte del gioco che è accettata come qualcosa che è impossibile da sradicare. Succede, e basta. Quando un avversario si guadagnava un rigore buttandosi o esagerando un leggero contatto, l’atteggiamento di giocatori e allenatori non era di condanna, bensì di rimprovero verso i nostri difensori per averlo lasciato fare. Stavamo entrando nella realpolitik del calcio. Le cose brutte succedono; sta a te non farle succedere. …”
Vialli passa poi a chiedersi che rapporti ci possono essere tra queste considerazioni e il pensiero di Machiavelli (nell’immagine iniziale un particolare di un suo ritratto eseguito da Santi di Tito) ed in particolare del suo capolavoro, “Il Principe”, che viene definito come una sorta di guida pratica alla conquista e al mantenimento del potere. Vialli chiarisce che Machiavelli fece molta attenzione a non dare un giudizio etico o morale su determinate azioni, affrontandole invece da un punto di vista puramente pratico. Il suo messaggio è che se hai uno scopo, lo persegui con qualsiasi mezzo necessario, e tutto ciò che fai è volto al suo raggiungimento.
“Come applicare queste idee al calcio? “. “Cos’avrebbe pensato Machiavelli a proposito del barare?” “Del buttarsi per ottenere un rigore, o meglio ancora, della “mano di Dio”, di Diego Armando Maradona?” (a cui verrà dedicato un post specifico nei prossimi giorni).
Vialli conclude che secondo Machiavelli “non sarebbe stato un problema, a patto di non farsi scoprire. Avrebbe anche sottolineato, però, che buttarsi per ottenere un rigore è un azione che va compiuta raramente, ma con grande convinzione. Se ci pensate, ha senso. Se un giocatore simula troppo spesso, i suoi avversari cominceranno a detestarlo. Inoltre, quel giocatore si guadagnerà la reputazione di baro e “tuffatore”. Il che non solo danneggerebbe la sua immagine, ma potrebbe indurre gli arbitri a diffidare di lui, rendendoli meno propensi a fischiare un rigore. Poi c’è, naturalmente il fatto che oggi, un giocatore che si butta e si fa beccare deve essere ammonito. Pertanto, la perla di saggezza di Machiavelli circa il barare potrebbe essere la seguente: fatelo solo quando i benefici superano nettamente i rischi, quando siete sicuri di non essere scoperti e, soprattutto, non troppo spesso.”
Il modo in cui il mondo del calcio ha reagito alla “mano di Dio”, il gol di mano di Diego Armando Maradona nella partita Argentina – Inghilterra dei mondiali del 1986, citato nella puntata precedente, è forse uno degli esempi più significativi per cercare di giungere a capo del paradosso del baro. Apparentemente il pensiero di Machiavelli non corrisponde più al pensiero dominante, eppure sbaglieremmo se ci aspettassimo la condanna di un comportamento così spudoratamente irregolare come quello di segnare un gol di mano nel gioco del calcio. Alla fine del primo tempo il risultato era fermo sullo 0-0, ma al 50° minuto un cross nell’area di rigore inglese fu toccato con la mano da Maradona: Diego saltò in alto e spinse con il pugno la palla verso la rete. L’arbitro non si accorse del tocco di mano e convalidò il gol, nonostante le proteste di tutta la squadra inglese. Subito dopo, Maradona segnò un altro gol, spesso indicato come il più bello della storia del calcio. Conquistò la palla nella sua metà campo e si lanciò sulla destra, superò sei giocatori inglesi, ed infine effettuò un’ultima finta scavalcando il portiere inglese, siglando il 2 a 0 al 55’. A molti piace pensare che questo capolavoro fu una specie di risarcimento per il gesto irregolare compiuto poco prima.
Lo scrittore Martin Amis ci ricorda che “Nell’America del Sud si dice a volte che la chiave per capire il carattere degli argentini si trovi nella loro valutazione dei due gol contro l’Inghilterra di Maradona: in Argentina, è il primo gol e non il secondo quello che piace veramente. … Per il macho argentino (o così dice almeno questa calunniosa generalizzazione – aggiunge Amis) i modi furbi danno molta più soddisfazione di quelli corretti. Più in generale, in questa cultura, (o forse nella sua caricatura, aggiungiamo noi), l’umiliazione, l’abiezione è il giocare sempre secondo le regole.”
Ma forse non sono solo gli argentini ad apprezzare maggiormente il primo gol: nel dicembre del 2006 la squadra di Coppa Davis della Russia doveva affrontare proprio l’Argentina; al tennista russo Marat Safin era capitato di incontrare Maradona nei giorni precedenti l’incontro; ed ecco come commentò la sua vittoria nel singolare decisivo contro Josè Acasuso: “Ho stretto la mano a Maradona, sabato, e questo mi ha portato fortuna; era la sinistra, la cosiddetta Mano di Dio. Credo che il suo tocco da Re Mida mi abbia contagiato. Non avevo mai incontrato prima Maradona, lo avevo visto solo in televisione. È stato un grande onore per me stringergli la mano, la stessa con la quale ha segnato quel famoso gol ai Mondiali”. Gaetano Quagliarello su “Il Mattino” del 22 marzo 2006 si spinge a dire che “… in quella circostanza specifica, il suo comportamento può persino considerarsi responsabile”, secondo Quagliarello “a volte, nella vita la responsabilità richiede il costo di qualche forzatura e persino di qualche compromesso con se stessi”. … “Sicché in politica come nel pallone, ogni tanto un gol di mano può anche non fare male. Può servire a riflettere sulle regole; ad evitare che le egemonie si sclerotizzino…” Insomma, siamo ancora a ragionare intorno al pensiero di Machiavelli.
continua…
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