Quando uno vince un torneo, e magari lo vince con sette su sette, comincia a pensare di essere bravo e irresistibile. E’ umano. Almeno credo. Ebbene, io ho vinto l’open Sada con sette su sette e per qualche secondo ho pensato di essere bravo e irresistibile. Solo per qualche secondo, però.
Perché subito dopo la fine dell’ultima partita, analizzando a mente una certa posizione, mi sono reso conto che qualcosa non quadrava.
Gli scacchi sono un gioco in cui c’entra la fortuna. Questo assunto è stato dimostrato in maniera scientificamente inoppugnabile e non è il caso di tornarci sopra. Diciamo che la conclusione del Sada 2016 è una conferma e chiudiamola così.
Settimo turno. Ho sei punti e, con il Nero, incrocio il mio inseguitore, Marco Musso, che ne ha cinque. In questa posizione eseguo trionfalmente un sacrificio che avevo preventivato un paio di mosse prima:
Visto? Una singola mossa poteva fare la differenza e cambiare tutto l’andamento del torneo. La Dea Bendata, insomma, ci ha messo del suo.
Anche sul sesto turno si può dire qualcosa:
Le partite di scacchi, si sa, contengono sempre qualche errore, ed è abbastanza normale che un singolo incontro venga deciso da svarioni improvvisi o da circostanze casuali. Quando le posizioni sono particolarmente astruse e sbilanciate il fenomeno si amplifica perché tenere tutto sotto controllo è una missione ai confini dell’impossibile. E a quel punto diventa difficile tenere fuori iatture, fatalità e coincidenze. Da qui discende il celebre dilemma: conviene di più giocare come ragionieri o come pittori surrealisti? Che ci crediate o no, anche i professionisti, quando devono costruirsi uno stile, accusano questo problema. Il gm inglese Danny Gormally divide gli scacchisti in “grinder” e “gambler”, e anche se non masticate l’idioma albionico le due parole dovrebbero esservi abbastanza chiare. Tutti vogliono vincere, ma tutti vogliono anche lasciare la propria impronta, il proprio marchio di fabbrica. Io, fra rischiare e non rischiare, fra ricerca del risultato e ricerca del “bel gioco”, non so dire cosa è meglio (anche perché “bel gioco” può essere anche una manovra strategica o una condotta profilattica che stronchi le velleità dell’avversario). Cosicché, per evitare di imbottigliarmi in una situazione senza uscita, interrompo il discorso. Ma un’ultima impressione la voglio comunque condividere: forse, quando si gioca, conviene dare sfogo alle proprie inclinazioni in assoluta libertà. Chissà mai che il resto non venga da sé.
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