Non sarebbe certo questo il luogo e nemmeno noi saremmo, a nessun titolo, deputati a scrivere di Primo Levi, se non fosse perché alcuni suoi scritti sono riferiti agli scacchi. La letteratura scacchistica è vasta: grandi scrittori hanno scritto degli scacchi, da Borges a Garcia Marquez, da Clarke a Maurensig.
Ma perché allora ci occupiamo di Primo Levi? Un po’ perché è di Torino, un po’ perché è ben presente alla Sst come i più attenti sapranno.
Infatti non so quanti si siano accorti che nella sede in via Goito fra quadri e vetrine colme di coppe e premi vari c’è un piccolo quadro, tanto per cambiare incorniciato da Carlo Bolmida, con all’interno l’articolo pubblicato su La Stampa del 25 ottobre 1981: Gli scacchisti irritabili.
Certo è solo un articolo scritto in occasione del campionato del mondo di Merano, quando i mondiali erano mondiali perbacco! Un match ogni tre anni dopo estenuanti “zonali” “interzonali”, match eliminatori. E non ci risulta nemmeno che Primo Levi fosse un praticante, ma verso gli scacchi, quando questi pezzi di legno bicolori erano anche cultura, non solo mosse mandate a memoria e giocate agonistiche più o meno corrette, aveva quel rispetto che a volte anche i migliori non hanno. Ma non solo, nell’articolo spera che gli scacchi facciano capolino nelle scuole perché servirebbero al pari di altre materie Che gli piacessero gli scacchi o che al minimo in essi vedesse dei significati che vanno oltre le mosse e la partita, ce lo confermano anche queste due poesie che troverete qui al fondo.
Purtroppo non sono più quelli i tempi: non credo che qualcuno oggi scriva versi sugli scacchi, al limite posta qualcosa su Facebook o mette, felice, due o tre pezzi in presa giocando a 1 minuto su Internet. Ma così va il mondo, non possiamo pretendere l’immutabilità, siamo in un momento di transizione che ci porterà magari in situazioni ancora più interessanti.
Non ci credo ma ci spero. Ma di una cosa sono invece certo, il fascino, quasi religioso, che ammantava il nostro gioco e che spingeva tanti uomini d’ingegno a interessarsi, anche solo marginalmente, ai 32 pezzi di legno ed ai loro movimenti non tornerà.
Dal volume “Ad ora incerta”, 9 maggio 1984
Solo la mia nemica di sempre,
l’abominevole Dama nera
ha avuto nerbo pari al mio
nel soccorrere il suo re inetto.
Inetto, imbelle pure il mio, s’intende:
fin dall’inizio è rimasto acquattato
dietro la schiera dei suoi bravi pedoni,
ed è fuggito poi per la scacchiera
sbieco, ridicolo, in passetti impediti:
le battaglie non sono cose da re.
Ma io!
Se non ci fossi stata io!
Torri e cavalli si, ma io!
Potente e pronta, dritta e diagonale,
lungiportante come una balestra,
ho perforato le loro difese;
hanno dovuto chinare la testa
i neri fraudolenti ed arroganti.
La vittoria ubriaca come un vino.
Ora tutto è finito,
sono spenti l’ingegno e l’odio.
Una gran mano ci ha spazzati via,
deboli e forti, savi, folli e cauti,
i bianchi e i neri alla rinfusa, esanimi.
Poi ci ha gettati con scroscio di ghiaia
dentro la scatola buia di legno
ed ha chiuso il coperchio.
Quando un’altra partita?
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Dal volume “Ad ora incerta”, 23 giugno 1984
Così vorresti, a metà partita,
a partita quasi finita,
rivedere le regole del gioco?
Lo sai bene che non è dato.
Arroccare sotto minaccia?
O addirittura, se ho capito bene,
rifare i tratti che hai mossi all’inizio?
Via, le hai pure accettate queste regole,
quando ti sei seduto alla scacchiera.
Il pezzo che hai toccato è un pezzo mosso:
il nostro è un gioco serio, non ammette
contratti, confusioni e contrabbandi.
Muovi, che il tuo tempo è scarso;
Non senti ticchettare l’orologio?
Del resto, perché insistere?
Per prevedere i miei tratti
ci vuole altra sapienza che la tua.
Lo sapevi fin da principio
che io sono il più forte.
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